mercoledì 2 maggio 2007

Il dubbio


Il Cilento è pieno di vipere. Qualsiasi serpente visto nel Cilento, è quasi sempre una vipera. Io stessa adocchio spesso vipere. Accidenti, sono morsa da una vipera nel Cilento: vado al Pronto Soccorso e mi faccio iniettare il siero antivipera. Al Pronto Soccorso m’iniettano il siero antivipera. Era proprio una vipera! Lo racconto a tutti e, così, sono intervistata anche da un giornalista di un settimanale locale, tale Oreste.

Eppure, ho un dubbio.
Mi guardo i due buchetti. Eh, sì, sono due.
Uno sull’altro: i buchetti.
Ma fammeli guardare meglio. Chissà, se somigliano più ad una cicatrice o ad un tatuaggio. Mah!
Sono carini, se fossero uno smile sarebbero gli occhietti: così tondi ed espressivi. Che carini!
Quasi quasi mi dipingo un sorrisetto sotto, sarebbe divertente, mi donerebbe.
Un po’ d’edonismo non guasta mai: lo diceva anche Epicuro.
Epicuro, sì, lui identificava il male con il dolore ed il bene con il piacere.
In realtà non mi fanno mica male, anzi, sono belli pure al tatto.
Che fossero un piacere?
Sono duri, nel morbido della carne: sembrano un decoro, forse sono più tatuaggio che cicatrice, no?
Mi ricordano quella storia del monaco tibetano, che due anni fa, fu morso da una vipera su un tallone e il serpente…si stirò sul colpo!
Poveretto!
Chissà, se qualcuno se ne ricorda: fu una notizia ansa. A me l’ha rammentata Manuele, mentre mi guardava e diceva:
-Che carine queste due punturine!-
Ma il serpente che fine ha fatto?
Questa domanda non mi farà dormire.
Intanto queste punturine cominciano a piacermi sempre di più.
Per me sono duepunti, tuttoattacato, come dice il mio amico Alessandro, duepunti.
Anche Euclide aveva messo insieme più punti senza riportarne danno, né per lui né per la sua famiglia d’Alessandria d’Egitto, se non per l’umanità scolastica (sia chiaro).
I miei duepunti, però, sono diversi…sarà perché sono velenosi?
Il veleno della vipera è costituito da acqua, protidi, nucleosidi, ioni, metalli: sostanze che servono ad immobilizzare, uccidere e digerire la preda.
Prova a digerirmi! Mi hanno sempre detto che sono indigesta, ma sarà vero?
Ad ogni buon conto temo più il siero che non la vipera: si sappia!
Quanto poi ad immobilizzarmi ci vorrebbe ben altro che nucleosidi, non ci possono neanche le ben più note camice di forza e per forza, altrimenti che forza sarei?
Beh, in realtà c’è un altro vantaggio, ben più vantaggioso ad avere questi ormai famigerati duepunti ed è questo: il giornalista mi guardava dritto…sui duepunti.
Mi guardava intensamente nei due punti.
Mi osservava proprio lì.
Era bello farseli…guardare…i duepunti.
Poi dopo di lui tutti hanno voluto vederli.
Ma tutti tutti, pure quelli che non mi hanno mai degnato di uno sguardo.
Pure…insomma tutti, anche adesso, non mi chiedono altro che poterli vedere.
E guardano. Guardano!
Eppure, ho un dubbio: ma che mi donassero ‘sti duepunti?

ANNA




I capelli bianchi di crine sono raccolti sulla fronte e quel movimento tipico delle mani in continuo agitarsi come l’onda del mare, del suo, sembra un richiamo, un saluto. Forse un giorno lo fu.
È lì, da anni, seduta davanti l’uscio della casa gialla. Le mani vuote. Piena è la mente e sono pieni gli occhi, che affogano nell’acqua passata del tempo e s’immergono nel verde mare della vita.
Tutto è tranquillità, che si cela nel panno dell’abito nero, intriso di salsedine.
Ha un sorriso tra le labbra, che s’apre come una ferita sul volto tra le rughe, come un varco che non fa rimpiangere e lei, che sembra di saperla lunga con quell’espressione impigliata tra le pieghe della pelle, guarda verso il tramonto.
Quella vena, che le pulsa sulla fronte, un rivolo del fiume che si getta a mare, svela la sua curiosità della vita da annusare, di quella che le passa accanto, dall’altra parte della strada: sul lungomare, verso il crepuscolo che arde, in brulichio di gente a passeggio.
Al suo saluto non risponde nessuno, ma tutti sanno il nome di Anna, la pescatrice. Molti conoscono la sua vita di reti e pesci, di barche da attendere e di figli per i quali pregare.
Tra le sue svolte, la vita sembra averla dimenticata, trasformata in statua di sale, bianca, abbandonata su quell’uscio, oggi e sempre abbagliato dal sole di giorno e pulsante della luce del faro di notte.
I pensieri di Anna, se ti fermi a guardarla, sembra quasi di sentirli come l’eco del tortile di una conchiglia.
Sono belle le donne da guardare. Ogni estate sono uguali, con abiti diversi, avvitate a tacchi a spillo o a grosse zeppe, catturate da abiti fascianti o come libellule in variopinti petali di profumate rose in arcobaleni di tinte.
Sono belle le donne da guardare, quando rubano la giovinezza al vento, quando sfidano con le unghie laccate la bellezza.
Sono belle, quando sbocciano all’improvviso e ritrovi nel turgore dell’insospettato seno le promesse del desiderio degli uomini che le vorranno.
Ancheggiano in sabba le ragazze con il passo da frenare per catturarle con gli sguardi. Rotola il loro passaggio come una pallina variopinta di gomma da far rimbalzare tra i sensi e la sensualità.
Sono chiome che incatenano i toni del sole, che sventolano in audaci effluvi da toccare con le pupille della vita che fu.
Della vita che fugge tra il volo dei sogni, che s’alzano in aquiloni trattenuti da piccole mani basse.
Sono belle le grida delle bimbe, che puoi toccare tra il bucato messo ad asciugare alla corda di questo patio, tra il ticchettio delle gocce scivolate a scandire il tempo.
I pensieri di Anna, li senti come l’eco del tortile di una conchiglia.

L'ombra


L’ombra fu vista per la prima volta in una notte di plenilunio. Aveva grandi occhi e denti e zampe penzolanti.
Silenziosa, solcava il cielo a circa venti/trenta metri d'altezza, come una macchia di cioccolata sul viso di un bambino, oscurava le tremule stelle e ricopriva in parte anche la luna.
Non s’era mai vista una cosa cosi terrificante.
Lentamente dalle case del porto, del borgo antico, dalla piazza, da tutti i quartieri di Agropoli, gli uomini uscivano muti.
Tutti si erano accorti di quella presenza minacciosa e tutti guardando il cielo a naso in su, si univano timorosi.
Sembravano gocce d’acqua che affluivano ad una sola chiazza lucente.
Il gruppo di uomini guardava l’ombra e avanzava.
Le donne sgranavano gli occhi, osservando il movimento fluente di quella strana presenza celeste, da dietro le finestre, mentre i bambini già dormivano.
Fu Giovanni Ruocco che incitò tutti ad armarsi: lo fece a bassa voce, quasi temendo d’esser scoperto.
Il corteo frusciante si diresse verso il comando dei carabinieri, i quali armati di mitra, condussero la battuta di caccia.
Lo stridere dei colpi rimbombò verso la rupe, sotto il faro che s’era ormai completamente oscurato e d'eco in eco, risuonò cupo, come il rintocco di una campana che aspetta il suo morto. Fu uno spettacolo balordo. Pigramente l’ombra si voltò senza alcun lamento e zampe all'aria e gocciolante, scese fino a posarsi sul mare che si colorò di una tonalità luminosissima di turchese. Sull’acqua, priva di vita, fu trascinata dalla corrente verso Capri, irrigidita e fredda per sempre.
Il bagliore della luna illuminava la pancia gigantesca e immobile, mentre la corrente, sempre più lesta, trascinava l’ombra lontano dalla vista degli agropolesi, che s’erano riuniti sul lungomare.
Si annunciò che in cielo, mentre l’ombra cessava di vivere, un gran pianto di stelle solcava, graffiando, il cielo più nero che si fosse mai visto e che, da allora il mare diventò molto più affascinante e luminoso.
Si disse, poi, che per tutto il paese, uccelli e gatti e cani facessero un gran baccano e che in quel mentre l’ombra come trascinata da un’attrazione tornasse verso Agropoli.
Si raccontò che la rupe sotto il faro cominciò a sgretolarsi formando una grotta che accolse ed inghiottì quella strana creatura morta.
Si sparse la voce che i bambini e le bambine, ridestati da un sordo richiamo, uscissero da tutte le case e sotto gli sguardi attoniti degli adulti, si riunissero in un enorme girotondo, che abbracciò l’intero promontorio d’Agropoli, intonando una canzone dalle parole misteriose e dolci.
Tutto questo, però, non è storicamente certo.
Di fatto, da quel giorno in questa splendida città di mare, la notte sembra ancora di sentire quel canto soave, che trasporta la mente di chi qui s’addormenta, verso il sogno e la pace ritrovata. Ed
ogni volta, nel sonno, l’ombra rivive, ma senza occhi, denti e zampe terrificanti, senza l’orrido enorme corpo abbandonato, riappare come viva in quell'impalpabile materia che comunemente si chiama favola o illusione per sorridere a grandi e piccini.

Sbattuto


L’altezza della vela e l’opalescente sua anima sbattevano contro il vento. Questo produceva un rumore di volo, quasi un battito d’ali: una planata. L’acqua era un continuo sciacquettio; gli schizzi spruzzavano ovunque, rimbalzando contro il legno, contro la pelle. Contro tutto ciò che c’era da bagnare. Le gocce rilucevano al sole. Era strano quel sole. Era basso, come un bimbo che si vergogna, faceva capolino da dietro la collina. Era strano davvero: aveva una tinta non già dorata, ma di seppia. Tutto assumeva un color ocra.
La madreperla vela perdeva la luminosità e la trasparenza: era offuscata, sembrava stinta, sporca, inutile, pareva dover cessare di rilucere. Continuava ad essere gonfia e tesa; continuava a spingere come animata da Cristo. Spingeva con forza, strascinando il legno tra i flutti. Rigava l’acqua, spaccandola, ferendola, squartandola. L’acqua spumava. Il graffio s’allungava sconciamente; sembrava ribollire come lava bianca.
Una nuvola di fumo giallo velava l’aria. Quella cosa prendeva avidamente vita dal bosco in fiamme.
Da lì arrivava un lamento, uno sfrigolio, poi scoppi di pianto: era la pineta che moriva bruciata. Moriva.
Il bruno dell’aria era surreale: le sbuffate di fumo lanciavano nodi d’ombra, che s’inseguivano come gabbiani.
Sul mare si vedevano passare le macchie dense che appannavano ogni cosa.
Il rumore dell’acqua non era più irregolare adesso. Lo sciabordio accompagnava il movimento.
Pulsava l’acqua; pulsavano le vene sulla sua fronte.
Tutto arrivava ad ondate.
Pure il sole s’alzava ancora, menando malamente bagliori sulle pieghe del mare.
Ora le fiamme erano visibili, si ergevano come mani impazzite e raccoglievano a mazzi gli alberi, strappandoli alla terra, per poi stritolarli nel loro stesso gemito. La massa di fuoco s’allargava, colando dalla collina, pareva davvero che gocciolasse fluida come l’acqua che scende incontro al mare. Un fiume in piena. Una valanga. La lingua di fuoco emetteva un rutto, soffocando il pianto, inginocchiando al suo passaggio il bosco, che vinto chinava la chioma.
Quasi nascosto dall’enorme vela, lui poteva osservare quella furia di fuoco, quei corpi irrigiditi, neri e privi di vita, il dimenarsi delle foglie in fiamme, il brusio della morte, che si saziava di vita.
Lui poteva osservare.
Con un boato il fuoco raggiunse il mare e acchiappò la vela e il legno e la barca tutta.
Lui fu scagliato in acqua.
Accanto all’isola di fuoco, che calava a picco, stendendosi sulle onde come un’amante che cerca riposo dopo l’amore.
Il mare era calmo, caldo, tranquillo. Con ampie bracciate, lui cominciò ad allontanarsi.
Il cielo sì riempì di un rumore: l’ombra dell’elicottero giunse come un falco.
L’elicottero scendeva e riempiva l’enorme secchio d’acqua poi lo svuotava sul fuoco, poi tornava, andava, ritornava.
Lui nuotava. Lui sicuramente nuotava e l’acqua come un gorgo, un vortice, un orrore divino, improvvisamente lo inghiottì.
Le fiamme urlavano; lui urlava; l’eliche sbattevano.
Sbattevano.